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mercoledì 11 agosto 2010

Il Mastino Napolitano

La storia

di Giuseppe Alessandra

Non è certamente facile e semplice condensare in poche righe oltre quattromila anni di storia per questa razza italiana. Dalla terracotta di Arte Mesopotamica del Metropolitan Museum di New York, del 2000 a.C., al Mastino Napoletano attuale la razza si è certamente evoluta, mantenendo tuttavia pressoché inalterate alcune sue caratteristiche peculiari, che ne fanno un vero "unicum" nel sempre più vasto panorama mondiale delle razze canine ufficialmente riconosciute. E se da un lato c'è quasi una ricerca spasmodica per la riscoperta, nei diversi Paesi, di razze autoctone, dalla storia più o meno recente, per quanto riguarda il Mastino Napoletano esiste il problema opposto, e cioè di mantenerlo, certamente migliorando, così come ce lo hanno gelosamente conservato i "mastinari partenopei" nel corso dei secoli ed a cui deve andare il più sentito ringraziamento per aver preservato questo vero monumento storico della cinofilia italiana, che un po' tutto il mondo ci invidia.

Sul Mastino Napoletano esiste una ricchissima bibliografia, italiana ed estera, che, in diversa misura, né traccia, con ricchi supporti iconografici e storeografici, il percorso storico dalle origini ai nostri giorni. Tra tutte le opere oggi reperibili quello che tratta con maggiori riferimenti è sicuramente quella del Prof. Felice Cesarino, "Il Molosso, viaggio intorno al Mastino Napoletano" edito da Fausto Fiorentino nel 1995. Senza risalire ad epoche più remote si hanno notizie certe che i Sumeri si dedicavano all'allevamento di cani di grandi mole e potenza, che era utilizzati sia in combattimento contro i nemici, che nelle cacce contro i grossi mammiferi leoni in primis. Le loro caratteristiche principali erano: testa potente e voluminosa con muso piuttosto corto e di grande potenza; membra forti e possenti supportate da un ossatura di grande sviluppo; tronco forte e solido con un'altezza assai impressionante. Questo tipo di cane, di tanta potenza, doveva sicuramente trovare le sue origini più remote in quel Mastino del Tibet, che oggi è ritenuto, e giustamente, da tutti i più grandi studiosi, il vero progenitori di tutti i molossoidi.
I Sumeri, quindi, questo popolo tanto misterioso e dal tempo stesso tanto colto ed evoluto, nelle loro emigrazioni avrebbero portato in Mesopotamia questa razza, che, successivamente ebbe, nella terra tra Tigri e l'Eufrate, tanta fortuna e tanta considerazione da trovare rappresentazione in diversi reperti archeologici, sparsi oggi nei più grandi musei del mondo. E' noto, infatti, che in Mesopotamia, già 2000 anni fa prima di Cristo, esistevano dei grandi centri abitati (Eridu, Susa, Ur, Uruk per citare i più noti) nei quali erano allevati questi grossi cani utilizzati soprattutto per difendere la proprietà (ma anche greggi e armenti) dagli attacchi dei leoni, in quel tempo presenti in quelle regioni. Ovvio, quindi, l'interesse degli artisti dell'epoca per questo cane che, spesso, per le sue gesta entrava nelle leggende popolari. E' proprio a quest'epoca, infatti, che risalgono le prime rappresentazioni storiche artistiche d'arte Mesopotamica che testimoniano la presenza di questi cani.
La terracotta, già, del Metropolitan Museum di New York e l'altra del Museum of Art di Chicago, rappresentano con impressionante somiglianza un cane assai prossimo al nostro Mastino Napoletano. La prima riprende un cane seduto dalla testa di gran volume, ricca di pieghe e di giogaia., con un'inverosimile potenza di muso e con le orecchie amputate: nella seconda si vede una femmina, dalle stesse caratteristiche di potenza e sostanza della testa, nell'atto di allattare quattro cuccioli. E' veramente impressionante la similitudine tra questi due reperti ed il mastino moderno, proprio quello d'oggi, piuttosto che quelli presentati per la prima volta all'esposizione di Napoli del 1946 e che tanto impressionarono Piero Scanziani.
Ma per renderci meglio conto delle proporzioni e della potenza di questi cani basta osservare la terracotta Assira  più tarda delle precedenti, risale al IX secolo a.C. e conservata al British Musenum di Londra, che rappresenta un cane condotto al guinzaglio dal suo proprietario.
Questo reperto, di eccezionale interesse storico ed artistico (proprio per questo ripreso nei più importanti testi scientifici) ci consente alcune considerazioni ancora più puntuali e precise circa questi grandi molossi del passato.
Innanzi tutto la taglia: l'altezza al garrese raggiunge la cintola del suo conduttore e, quindi, non doveva essere sicuramente inferiore agli 80cm; la testa: di grande volume e ricca di rughe, con orecchie integre, portate piatte ed inserite piuttosto alte; la giogaia è molto sviluppata e parte dalle branchie della mandibola per finire a circa metà del collo; infine il tronco: questo è di grandissima potenza e di grande massa, è più lungo dell'altezza al garrese ed è sorretto da arti con ossatura molto potente, con importanti diametri trasversali.
Di fronte a questa testimonianza si può pensare all'attuale mastino, tanto è impressionante la sua somiglianza ai cani che oggi si vedono.Ma ritornando alla storia, partendo dalla Mesopotamia, questi cani si sono irradiati, sicuramente al seguito delle migrazioni o delle guerre, verso occidente seguendo tre direttrici: una più a nord, verso l'Anatolia, la Grecia, la Macedonia e l'Albania; una più a sud verso l'Egitto e la Libia; ed una terza verso le coste più orientali del bacino del Mediterraneo, in quella che era la terra dei Fenici. Questo sarà un passaggio fondamentale per lo sviluppo e l'espansione della razza in tutta Europa, ed in particolare, in Italia.
Cani così possenti furono, spesso oggetto di doni tra i potenti dell'epoca. Alessandro Magno era orgoglioso dei suoi Molossi, dono di un Re, ed il console romano Paolo Emilio, vittorioso con le sue legioni di terra di Molossia, tra i bottini di guerra portò a Roma alcuni di questi grandi cani per farli vedere al popolo. Lo stesso Giulio Cesare, intorno alla metà del primo secolo a.C., nella sua "campagna" per la conquista della Britannia, trovò di fronte alle proprie legioni dei cani di grandissima mole e di gran coraggio del tutto simile a quelli descritti, e che lui stesso definì "Pugnaces Britanniae".
Impressionato da tanta forza e coraggio Giulio Cesare ne portò a Roma alcuni esemplari, ma nel contempo nominò, in terra di Britannia, un procuratore addetto all'allevamento ed al trasferimento a Roma di questi cani.
La presenza in Britannia di questa razza avvalora, ed anzi conferma l'ipotesi che, prima ancora dei Romani, furono i Fenici, maestri assoluti nei commerci in quell'epoca, a diffondere nel bacino del Mediterraneo questo tipo di cane, sicuramente assieme ad altri, che successivamente diedero origine al nostro Cirneco dell'Etna ed a tutte le razze iberiche dei Podenghi.
Si può quindi affermare che prima ancora di Paolo Emilio e di Giulio Cesare, portati proprio dai Fenici, esistessero nel nostro territorio alcuni esemplari di questi grandi molossi.
Di questi hanno trattato, in maniera più o meno diffusa Varrone e Virgilio, ma quello che ha studiato e descritto il mastino con gran puntualità ed in modo dettagliato è stato il Columella, che nel primo secolo d.C. ha quasi stilato quello che potremmo definire uno standard di razza. Nel suo "De re rustica" il Columella lo definisce ottimo guardiano della casa e delle proprietà, anticipando di quasi due millenni, quella che è e deve rimanere l'attuale utilizzazione.
Anche se, come ben si sa, in epoca romana veniva utilizzato al fianco delle legioni, in guerra, e in combattimenti contro le fiere nei circhi, e che, successivamente lo si trova nelle Corti Rinascimentali del centro e del nord Italia, protagonista di cacce a grossi selvatici (cervi e cinghiali), il mastino era e resterà un cane da guardia, continuando così il suo impiego che molto tempo prima, tra i Sumeri ed i Mesopotami, lo aveva reso tanto celebre.
Ed è proprio per questa sua indole innata di guardiano della proprietà che, in epoca romana, i patrizi lo vollero custode delle ville, un tempo numerose nell'area Campania. Decaduto l'impero romano i cani sono rimasti, trovando, proprio alle pendici del Vesuvio un ambiente a loro favorevole, tanto da radicarsi strettamente sia col territorio sia con la gente sia li popolava.
E fu proprio in questa terra, sempre alle pendici del Vesuvio, che Piero Scanziani incontrò il Mastino Napoletano e fu subito un grande amore, al punto da essere ricordato, e giustamente, come colui a cui si deve la storia moderna di questa magnifica razza, oggi ricercata da cinofili di tutto il mondo.

Il Corsiero Napolitano

Il Corsiero Napolitano
Testo di Giuseppe Maria Fraddosio

 
     Il cavallo corsiero napolitano (coursier napolitain in francese, neapolitan courser in inglese, corcel napolitano in spagnolo) fu considerato a ragione, tra i secoli XV e XVIII, uno dei migliori al mondo per le esigenze della cavalleria militare.  Bello, forte e resistente, fu esportato in grande numero dalle province napolitane verso tutti gli altri stati italiani, nonché verso la Spagna, la Francia, l’Olanda, l’Inghilterra, la Danimarca, la Germania, la Prussia, la Polonia, la Russia e l’Austria-Ungheria. Insieme con il cavallo spagnolo, con quello berbero e con quello turco, servì per l’insanguamento delle razze dell’Europa centrale e di quella settentrionale, alle quali conferì soprattutto le proprie ben equilibrate doti psicofisiche derivategli dalla costante selezione naturale cui era soggetto, opportunamente finalizzata dall’uomo attraverso un sistema di allevamento risalente all’antichità. 
 
 
Studio di Cavallo Napolitano
(Disegno di Rocco Di Fiore, Manoppello, 1999)
 
     Già i Romani dell’età repubblicana e dell’inizio di quella imperiale avevano dimostrato magistrale perizia ippotecnica coniugando in modo soddisfacente l’esercizio atavico della transumanza con la pratica di avveduti incroci e meticciamenti. In virtù di un’accurata programmazione degli accoppiamenti, essi erano riusciti a produrre animali omogenei, quanto alla costituzione fisica ed al temperamento, in relazione alle necessità operative delle loro decuriae di cavalleria, composte in netta prevalenza da militi di stirpe siculo-italica tradizionalmente dediti al mercenariato.
     Si può, pertanto, fare riferimento ad un cavallo romano antico  -  suscettibile di continua evoluzione morfologica ed attitudinale mediante scambi di sangue con le migliori produzioni ippiche delle regioni geografiche via via assoggettate al dominio di Roma  -  esemplarmente raffigurato nel monumento bronzeo all’imperatore Marco Aurelio, in Campidoglio. Sua peculiare caratteristica fu il profilo convesso (montonino) del naso, oggi definito anche, in inglese, Roman nose. Tale cavallo, sopravvissuto alla caduta dell’Impero romano di Occidente (476 dopo Cristo), ha trasmesso la più gran parte della propria eredità genetica alla razza romana (erroneamente definita, da alcuni, maremmana laziale), allevata per secoli nella Campagna di Roma, in Sabina e nella Tuscia romana.
     Per tutto l’alto Medioevo, gli invasori mongolici, germanici, vandali e saraceni, sovrapponendo i loro cavalli a quelli romani non fecero che protrarre nel tempo, inconsapevolmente e disordinatamente, quanto i discendenti dei Latini avevano, consciamente e razionalmente, saputo disporre per la selezione delle loro cavalcature da guerra.
     Dopo l’anno 1000, una massiccia immissione di sangue orientale fu operata in Europa dalle armate cristiane reduci dalle crociate in Palestina.
     Di particolare importanza fu, tra il XII ed il XIII secolo, l’introduzione di cavalli leggeri e veloci da utilizzare nella caccia con il falcone, di cui fu famoso cultore Federico II di Svevia. Alla sua passione per l’allevamento equino fu dovuto il rifiorire, nel Sud della nostra penisola, di un’ippicoltura basata su criteri simili a quelli che ne avevano permesso il grandioso sviluppo in epoca romana.
     Nel tardo Medioevo, ebbero spicco le ottime doti ed il buon mercato dei cavalli del Reame di Napoli, assai apprezzati anche negli stati vicini, sia al tempo degli Angioini, sia al tempo degli Aragonesi.
 
     Spettò tuttavia agli Spagnoli il merito di porre di nuovo sapientemente a frutto le straordinarie possibilità offerte dai maestosi cavalli dell’Italia meridionale, passata sotto la loro dominazione agli albori del XVI secolo e governata, fino al 1707, da viceré nominati dai sovrani di Madrid. In quel lungo periodo di tempo, fu rinnovato lo scambio ippico tra le due penisole già avvenuto fra il III ed il II secolo avanti Cristo, allorquando le armate di Cartagine e delle Gallie avevano invaso l’Italia con i loro cavalli numidico-iberici e celtici e, contemporaneamente, alcune legioni di Roma avevano trasferito cavalli italici nella Penisola iberica, dove poi sarebbero state fondate  -  e popolate da romani per quasi cinque secoli  -  varie città, tra le quali Italica, nei pressi dell’odierna Siviglia, che avrebbe dato i natali agli imperatori Traiano ed Adriano.
     Di fatto, tra il Millecinquecento ed il Milleseicento si ebbero, insieme, una parziale ispanizzazione del patrimonio ippico napolitano ed una parziale napolitanizzazione di quello spagnolo.
     Nacque a Napoli intorno al 1534  -  grazie a maestri come Giovan Battista Ferraro e Federico Grisone  -  la prima accademia equestre d’Europa, mentre nelle scuderie imperiali spagnole andavano aumentando il numero ed il prestigio dei corsieri napolitani. Lo stesso imperatore Carlo V d’Asburgo, … hauendo ottima conoscenza, e prattica di tutte le specie di caualli, e di tutte l’arti Caualleresche, sempre elesse per seruigio di persona i caualli Napolitani, come idonei ad ogni essercitio, e fattione. (Pasquale Caracciolo, La gloria del cauallo, Venezia, 1589).
 
     Nella Descrizione di Firenze nell’anno 1598 da parte del principe germanico Ludwig  Anhalt-Kothen  -  compilata in lingua italiana, nel 1859, dallo storico e filosofo di Aachen Alfred von Reumont  -  si legge il seguente brano sulla statua equestre in bronzo, eseguita tra il 1587 ed il 1594 dal Giambologna (il fiammingo Jean de Boulogne), che campeggia in Piazza della Signoria:
     Sulla piazza maggiore sta la figura del granduca Cosimo (Cosimo I de’Medici, che aveva sposato nel 1539 Leonor Alvarez de Toledo, figlia del celeberrimo don Pedro, viceré di Napoli, n. d. r.); esso monta un gran cavallo napoletano che posa sopra due piedi, in modo da non saziar mai l’occhio per la bellezza dell’artifizio.  
 
 
        
Confronto fra i ritratti di un Corsiero Napolitano (a sinistra) e di un Cavallo Spagnolo,
 che evidenzia bene le differenze morfologiche tra le due razze nel XVII secolo
( da W. Cavendish of Newcastle, La mèthode nouvelle et invention  extraordinaire de dresser les chevaux, Anversa, 1658 )
 
     Il termine corsiero (o corsiere) designava, tra la fine del Medio Evo e l'inizio dell'Età Moderna, il cavallo da combattimento, la cui andatura più veloce (il corso, cioè il galoppo) lo differenziava dal portante, ossia dall'ambiatore usato prevalentemente per lunghi e comodi trasferimenti in sella: era, insomma, il nome funzionale della razza.
     L'aggettivo napolitano ne indicava l'origine geografica, non limitata esclusivamente a Napoli e dintorni ma estesa, fino al 1860, all'intero Regno di Napoli, comprendente parti delle odierne province di Rieti, di Frosinone e di Latina, nonché gli attuali Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata e Calabria.
     Corsiero napolitano (e non napoletano), dunque, in quanto cavallo storico allevato, principalmente per la guerra, in tutto il Regno di Napoli e da qui esportato, anche come miglioratore, verso il resto dell'Italia e dell'Europa. 
     La selezione di questo pregevole ausiliario dell'uomo d'armi avveniva nei suoi primi tre anni di vita ed era assolutamente naturale: il puledro veniva scelto in base a criteri estetico-funzionali per l'impiego bellico tra i maschi interi che componevano le mandrie, in passato definite razze, di proprietà delle famiglie nobili; quindi si procedeva al suo addestramento in apposite strutture, denominate cavallerizze.
 
Merco dei corsieri napolitani della Regia Razza di Puglia (Palazzo d'Ascoli) nei secoli XVI e XVII
(da C.G. Gattini, Delle razze di cavalli nel Regno di Napoli e specie in Matera e contorno, Matera, 1902)
 
     L’arco di tempo in cui la razza assurse al massimo splendore ed alla più vasta notorietà in Europa fu quello compreso tra il XVI secolo ed il XVIII. Non vi fu, allora, monarca o principe che non ambisse ad ospitare nelle proprie scuderie corsieri napolitani morelli, o bai, o grigi, per la guerra, per la caccia, per il tiro delle carrozze.Durante tutto il XVIII secolo e nel primo quarto del successivo, la monarchia asburgica ottenne numerosi cavalli napolitani, tra i quali sono rimasti famosi Cerbero eScarramuie, ritratti dal pittore inglese George Hamilton intorno al 1725, nonché tre dei capostipiti degli odierni lipizzani: il morello Conversano, il baio Neapolitano ed il bianco Maestoso (quest’ultimo di origine napolitano-spagnola).
 
     Oltre alla lipizzana, furono migliorate in età barocca, mediante l’impiego di cavalli padri (stalloni) e di cavalle di corpo (fattrici) napolitani, le razze germaniche di Hannover, Holstein, Oldenburg, Trakehnen e Württemberg, l’olandese del Gelderland, la danese di Frederiksborg e la boema di Kladruby.
     Alla razza lipizzana – storicamente appartenuta all’Austria-Ungheria, all’Italia ed alla Iugoslavia – spettò l’eredità più consistente di caratteri tipici dei cavalli napolitani, oggi presenti nelle famiglie maschili dei Conversano, Neapolitano e Maestoso, in quella, di origine danese, dei Pluto ed in quella, proveniente da Kladruby, dei Favory.
 
     Nella Relazione delle persone, governo e Stati di Carlo V e di Filippo II, letta nel Senato della Repubblica di Venezia, nel 1557, dall’ambasciatore Federico Badoero, i cavalli napolitani furono definiti non vaghi come li giannetti, ma più belli che li frisoni, forti e coraggiosi…
 
 
Immagine di cavallo napolitano
(da G. S. Winter de Adlersflügel, Trattato nuovo e aumentato del far la razza di cavalli, Nuremberg, 1687)
 
     Pasquale Caracciolo, nel suo trattato equestre intitolato La gloria del cauallo (1589), così si espresse:
 
 Ma se di tutti i caualli rarissimi sono quelli, che di tutte le conditioni necessarie adornati, e à tutti gli essercitij siano idonei; di tal lode i Napolitani soli veramente al più generale si trouan degni; perché al caminare, al passeggiare, al trottare, al galoppare, all’armeggiare, al volteggiare, e al cacciare hanno eccellenza, e sono di buona taglia, di molta bellezza, di gran lena, di molta forza, di mirabile leggierezza, di pronto ingegno, e di alto animo; fermi di testa, e piaceuoli di bocca, con ubbidienza incredibile della briglia; e finalmente così docili, e così destri, che maneggiati da un buon Caualiere, si muouono à misura, e quasi ballano …
 
     Nella Novela del coloquio de los perros (1613),  il grande Miguel de Cervantes Saavedra richiamò con singolare incisività l’attitudine dei cavalli Napolitani all’apprendimento delle arie dell’alta scuola equestre (Ensenome a hacer corvetas como caballo napolitano…) e la loro versatilità (…viendo mi amo cuan bien sabia imitar el corcel napolitano).
 
 
Stallone napolitano in una stampa francese del XVIII secolo
 
          Nel trattato dal titolo La perfezione e i difetti del cavallo, opera del barone d’Eisenberg, direttore e primo cavallerizzo dell’accademia di Pisa, dedicata alla Sacra Cesarea Real Maestà dell’Augustissimo Potentissimo Invittissimo Imperatore Francesco I Duca di Lorena e di Bar ec. Gran Duca di Toscana ec. ec. ec. (Firenze, 1753), si legge tra l’altro, nella descrizione della Testa Montanina (sic!), che … i gran Signori per avere stalloni colla testa montanina fanno cercarne apposta nel Regno di Napoli, o in altre parti d’Italia, per mettergli nelle loro razze, affinché comunichino tali qualità a i puledri.
 
 
Testa montonina raffigurata nel trattato equestre del barone d’Eisenberg,
intitolato La perfezione e i difetti del cavallo, Firenze, 1753.
(Collezione della Galleria Tanca Antiquariato, Roma, Salita de’ Crescenzi 12)
 
 
     Il Regno di Napoli fu visitato, nel 1789, dal nobile svizzero Carlo Ulisse de Salis Marschlins, uomo erudito, osservatore attento, resocontista scrupoloso. Egli dedicò alcune righe del suo Nel Regno di Napoli. Viaggi attraverso varie province nel 1789 alla descrizione dei cavalli napolitani della razza di famiglia dei duchi di Martina, allevati nella grande masseria di San Basilio, presso Mottola.
 
 I cavalli del Duca sono pregiatissimi, specialmente per la loro forza, la loro gagliardia e la singolare bontà delle loro unghie; qualità queste da attribuirsi probabilmente alla natura forte e secca dei pascoli, ed al lasciare gli animali continuamente all’aperto in ogni stagione, senza rinchiuderli nelle stalle.
I puledri tenuti per uso privato, vengono domati ai tre anni, ed i cavalli che non servono per uso del Duca sono venduti verso i quattro anni, o alla fiera di Gravina o a quella di Salerno, dove il prezzo corrente di una buona pariglia di cavalli di quattro anni, senza nessun difetto, varia dai 150 ai 200 ducati. Sino a poco tempo addietro, nessun cavallo veniva castrato, servendo gli stalloni sia pel tiro, sia per cavalcare, e lasciando le giumente esclusivamente per le razze. Adesso però si usa altrimenti, e la cavalleria sarà fornita d’ora in poi di giumente e di cavalli castrati.
Anticamente non c’era barone del Regno che non avesse una o più razze di cavalli; ed i cavalli napolitani sono stati sempre e dappertutto tenuti in gran pregio per la loro resistenza e per le altre loro buone qualità, così come erano apprezzati negli antichi tempi.
 
Il cavallo scolpito in pietra sulla facciata del Palazzo dell’Università di Martina (1761).
(Foto Piero Papa)
 
          La cavalleria del Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone godeva, nella seconda metà del XVIII secolo, di buona fama. Nella sua Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (pubblicata nel 1824), il piemontese Carlo Botta, trattando della campagna militare del 1796 nell’Italia del Nord  - durante la quale furono impiegati, in aiuto alle truppe austriache del generale Beaulieu contro quelle francesi di Napoleone Bonaparte, i reggimenti di cavalleria napolitani  ReReginaPrincipe e  Napoli, soprannominati Diavoli bianchi  -  così scrisse:
 
Fu forte l’incontro, forte ancora la difesa, perché gli Austriaci sfolgoravano gli assalitori con le artiglierie, ed i cavalli Napolitani, opprimendo i soldati corridori, ed assaltando con impeto gli squadroni stabili, rendevano difficile la vittoria ai Francesi. Andavano gl’imperiali in rotta, ed abbandonato Fombio a chi poteva più di loro, si ritiravano a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri: sarebbe stata più grave la perdita, se la cavalleria Napolitana, condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran valore, serrandosi grossa ed intiera alla coda, ed urtando di quando in quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l’impeto suo, e fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi.
 
     Quindi aggiunse:
 
La schiera tutta sarebbe stata condotta all’ultimo termine, se per la seconda volta la cavalleria Napolitana non le faceva scudo alla ritirata.
 
     E, più avanti:
 
La cavalleria Tedesca, ma principalmente la Napolitana, che anche in questo fatto soccorse egregiamente i Tedeschi, proteggeva il ritirantesi esercito.   
 
     Nel primo quarto del XIX secolo, Giuseppe Ceva Grimaldi – alto funzionario regio, inviato in Terra d’Otranto da Ferdinando I delle Due Sicilie per ripristinarvi la legalità borbonica dopo il crollo del potere di Gioacchino Murat – così annotò, nel suo Itinerario da Napoli a Lecce, descrivendo la città di Martina:
 
Gli amatori de’ bei cavalli vi troveranno la più bella razza che ve ne abbia nel regno, avanzo di quella tanto celebre di Conversano.
 
     Più avanti, a proposito dello stato dell’agricoltura in quella provincia, aggiunse:
 
Non vi sono razze di cavalli meno che una in Mattino (Matino, n. d. r.), in Martina l’altra; la prima di piccioli e vivaci cavalli , la seconda di poche ma belle giumente nate dalla mescolanza delle razze di Conversano e Martina.
 
                                                      
Merco dei cavalli allevati dagli Acquaviva d'Aragona, conti di Conversano
Marchio a fuoco impresso su alcuni stalloni lipizzani allevati in Ungheria, per indicarne la discendenza, in linea materna, dal capostipite Conversano
(da C. G. Gattini, Delle Razze di cavalli nel Regno di Napoli e specie in Matera e contorno, Matera, 1902)
(da C. G. Wrangel, Ungarns Pferdezucht in Wort und Bild, Stuttgart, 1893)

     Dunque, le razze cavalline di Terra di Bari (in special modo, quella dei conti di Conversano) e di Terra d’Otranto (in particolare, quella dei duchi di Martina) furono determinanti, sia per qualità sia per quantità, nella formazione della razza napolitana. D'altronde, la continua richiesta di capi nati in quegli allevamenti stimolava le famiglie della nobiltà regnicola ad una sana emulazione in un’attività d’importanza primaria, e per il suo significato economico, e per quello culturale, giacché il grado di civiltà di una nazione risultava anche dalla bontà delle sue produzioni zootecniche e principalmente di quelle equine.
 
 Il profilo montonino - tipico del Corsiero Napolitano - della testa dello stallone Durante,
in una stampa inglese dei primi anni del XIX secolo
(Foto G. M. Fraddosio)

     Le fiere annuali di Foggia, Gravina e Salerno servirono a lungo per diffondere nel resto d’Italia e d’Europa i numerosi puledri napolitani ivi trasferiti dalle province più vocate all’allevamento, tenuti allo stato brado o semibrado per aumentarne la resistenza alle malattie, e resi avvezzi ai disagi della transumanza per esaltarne le doti di rusticità e di fondo.
     Durante il loro lungo dominio sull’Italia del Sud (dal 1734 al 1860, escluso il decennio napoleonico), i Borbone di Napoli mantennero loro proprie reali razze di cavalli a Carditello, in Terra di Lavoro, ed a Persano, in Principato Citra (entrambe dal 1750, circa, al 1860), a Ficuzza, in Sicilia, (dal 1799 al 1834) ed a Tressanti, in Capitanata, (dal 1815 al 1838 e dal 1850, circa, al 1860).
     E’ noto che i cavalli del Real sito di Persano transumavano a primavera sui vicini monti Alburni, dove potevano godere, sino all’inizio dell’autunno, di un clima più fresco e più salubre e di pascoli d’alta quota abbondanti di essenze preziose per l’armonico sviluppo dei carusi (puledri nati nell’anno).
 
Sella napolitana usata in Puglia nel XVIII secolo
(Foto Fabio Silvestre, per gentile concessione del dottor Roberto Benvenuto)
 
     Nella grande Regione dei tratturi – comprendente la fascia montuosa appenninica e quella costiera adriatica che dall’Abruzzo scendevano, in direzione Sud-Est, fino a Metaponto ed al Salento, sotto la giurisdizione amministrativa e fiscale della Regia Dogana della mena delle pecore in Puglia – migliaia di cavalli, asini e muli erano trasferiti, insieme con enormi armenti di pecore, capre e vacche, a Maggio sui rilievi abruzzesi, molisani e lucani, nonché sulle alture del Gargano e delle Murge, per rientrare a Settembre nelle masserie o nelle poste di pianura.
     Con decreto n. 8153 del 29 Marzo 1843, Ferdinando II di Borbone ordinò che fossero installate tre razze militari di cavalli  per la rimonta della cavalleria dell’esercito: la prima, in Puglia ed Abruzzo (a Foggia, con monticazione a Rocca di Mezzo), composta da 28 cavalli padri e da 560 giumente da corpo; la seconda e la terza, rispettivamente in Calabria (a Belcastro) ed in Sicilia (a Lentini), composte ciascuna da 15 cavalli padri e da 300 giumente da corpo.
 
 
Marchio a fuoco impresso sulla coscia destra dei cavalli della
Razza Militare I (Puglia e Abruzzo) del Regno delle Due Sicilie.
(Da Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie,
anno 1843, semestre I, Napoli, dalla Stamperia Reale, 1843).
 
 
     Quanto alle provenienze dei soggetti da assegnare a tali razze, il Sovrano delle Due Sicilie decretò:
 
3. Le giumente per le razze militari saranno scelte tra le migliori razze nostrali e razze romane. La loro altezza dovrà essere non minore di palmi sei napolitani.
4. I cavalli che dovran servire da padri verranno scelti tra i migliori italiani ed i veri di Mecklemburg e polacchi, e saranno alti non meno di palmi sei napolitani.
(Da Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie,
anno 1843, semestre I, Napoli, dalla Stamperia Reale, 1843).
 
     Un’interessante descrizione della popolazione cavallina comune (common breed) nel Regno delle Due Sicilie fu fornita dallo statunitense Robert Sears in Scenes and sketches in continental Europe (New York, 1847).
 
The Neapolitan horse  -  annotò quell’autore  -  is small, but very compact and strong; his neck is short and bull-shaped, and his head rather large; he is, in short, the prototype of the horse of the ancient basso-rilievoes and other Roman sculptures found in the country.
 
 
Sella napolitana usata in Abruzzo nel XVIII secolo.
Museo della lana (Scanno, L’Aquila, Regione Abruzzo, Italia).
Il Museo è un progetto di Michele Rak.
(Foto G. M. Fraddosio)
 
     Dopo il 1860, l'allevamento del cavallo napolitano subì il durissimo contraccolpo della violenta annessione delle province borboniche da parte della monarchia savoiarda e fu quindi destinato ad un rapido degrado per effetto di scelte di politica economica tanto più insensate in quanto via via più nocive alla reputazione del nostro paese in campo ippotecnico.
 
     La realizzazione di un complesso e documentato programma zootecnico per il recupero genealogico e morfologico del Corsiero Napolitano (CN)  è stata avviata nel 2004 con l’individuazione, in alcune popolazioni cavalline dell’Italia meridionale continentale, di linee di sangue risalenti a capostipiti  di origine autoctona, da incrociare con linee generazionali estere insanguate  -  soprattutto nei secoli XVII e XVIII  -  da riproduttori napolitani.
 
Le razze/popolazioni equine da impiegare durante l’attuazione di tale programma sono:
 
-
quella delle Murge lungo il filo genealogico Nerone-Conte di Conversano, da incrementare il più possibile, anche in consanguineità controllata;
  
-
quella di Esperia, già denominata ciociara;
 
-
quella del Pentro, già detta di Montenero Val Cocchiara;
 
-
quelle di Persano e salernitana;
 
-
quella lipizzana, con riferimento esclusivo alle famiglie Conversano, Maestoso e Neapolitano.
 
 
     Nell’ambito della razza del Corsiero Napolitano, è stata individuata una prima varietà con chiare connotazioni di carattere storico e geografico: quella del Corsiero Napolitano Conversano (CNC).
 

 
 
Genealogia di Liberanapolitana CNC 2005/01, F1 murgese x lipizzana
 
 
                              Paisiello75/1999 
 
 Brennero 531/1988
 
 
 
 
 
 
 Fantasilandia 50/1992
 Persico 284/1979
 Ione 738/1974
  Balestrina 312/1968
 Patrizia 293/1979
 Urbano 109/1964
 Ornella 404/1958
  Virgilio 452/1985
 Ferreo 76/1972
 Nociglia 242/1977
 Orsolana 605/1978
 Granozzo 318/1973
 Uccellina 107/1964
Liberanapolitana CNC 2005/01
Acquaviva 2002
 


Conversano Timotea 1995
 
 
 
 
 
 
Daniela 1993

Conversano Mirabella  1986
 Conversano Blanca II 1974   
 Mirabella 1979 
Timotea  1986   
 Neapolitano Pasqua 1972          
  Albona 1968
Conversano Mirabella 1987
 Conversano Sarda 1983             
  Mirabella 1979 
 Ariosa 1982
 Maestoso Caecilia 1961               
  Ancona 1975 
 
 
Liberanapolitana CNC 2005/01
F1 murgese x lipizzana, da Paisiello 75/1999 ed Acquaviva 2002
(AIA - Registro dei Derivati Lipizzani)
(Foto Pier Paolo Fraddosio)
 
     Il Corsiero Napolitano Conversano  -  che ha avuto origine in Puglia e che in tale regione sarà sempre meglio selezionato zootecnicamente e tutelato giuridicamente  -  si ottiene facendo incrociare stalloni delle Murge della linea Nerone-Conte di Conversano con fattrici lipizzane figlie di stalloni della famiglia Conversano.

 
Liberanapolitana CNC 2005/01
F1 murgese x lipizzana, da Paisiello 75/1999 ed Acquaviva 2002
(AIA - Registro dei Derivati Lipizzani)
(Foto Pier Paolo Fraddosio)
 
 
I prodotti da siffatti incroci (eventualmente, iscrivibili  anche nel Registro dei Derivati Lipizzani di cui all’articolo 13 del Disciplinare del Libro genealogico del cavallo di razza Lipizzana) possono essere dichiarati idonei all’incrocio con fattrici selezionate delle Murge (purché figlie di stalloni della linea Nerone-Conte di Conversano), se maschi, e con stalloni delle Murge della linea Nerone-Conte di Conversano, se femmine. Ne discenderanno soggetti via via più pregiati perché più vicini alle caratteristiche morfologiche ed attitudinali che resero famosi in tutta Europa, secoli or sono, i cavalli napolitani  allevati nella Regione dei tratturi.

http://www.cavallodellemurge.it/index.htm 

martedì 10 agosto 2010

Museo Duca di Martina in Villa Floridiana


L'edificio
Nel 1817 Ferdinando di Borbone acquistò da Cristoforo Saliceti, ministro di polizia del governo murattiano, un appezzamento con preesistente villa per destinarlo a residenza estiva della moglie morganatica Lucia Migliaccio di Partanna, duchessa di Floridia, sposata in Sicilia nel 1814, tre mesi dopo la morte della regina Maria Carolina. La ristrutturazione dell’intero complesso, che già comprendeva un piccolo casino (l’attuale Museo) ed una coffee-house (l’odierna Villa Lucia), fu affidata all’architetto Antonio Niccolini che, tra il 1817 e il 1819, progettò sia il rifacimento in stile neoclassico della palazzina che la riconfigurazione dei giardini all’inglese, secondo la moda del tempo. Il Niccolini progettò, inoltre, un teatrino all’aperto, un tempietto ionico, le serre ed alcune grotte per animali esotici, unici elementi architettonici ancora oggi esistenti nell’attuale area del Parco, che fanno percepire l’originaria atmosfera pittoresca. Dopo la morte della duchessa, nel 1826, gli edifici monumentali ed il Parco subirono numerose trasformazioni da parte degli eredi fino al 1919, anno in cui la Villa venne acquistata dallo Stato e destinata a sede museale dal 1924 per ospitare la collezione del duca di Martina.

                                                                     Il Museo                                                     

Il Museo Duca di Martina nella Villa Floridiana di Napoli è sede di una delle maggiori collezioni italiane di arti decorative. Comprende oltre seimila opere di manifattura occidentale ed orientale, databili dal XII al XIX secolo, il cui nucleo più cospicuo è costituito dalle ceramiche. La raccolta, che dà il nome al Museo, è stata costituita nella seconda metà dell’Ottocento, da Placido de Sangro, duca di Martina e donata nel 1911 alla città di Napoli dai suoi eredi. Il duca, trasferitosi a Parigi dopo l’unità d’Italia iniziò ad acquistare oggetti d’arte applicata, entrando in contatto con i maggiori collezionisti europei, come i Rothschild, e partecipando alle grandi esposizioni universali che proprio in quegli anni, tra Londra e Parigi stavano contribuendo ad alimentare l’interesse per le arti applicate all’industria. Il Museo si sviluppa oggi su tre piani; al piano terra sono esposti oggetti in avorio, smalto e bronzo di epoca medioevale, maioliche rinascimentali e barocche e vetri di Murano dei secoli XV- XVIII; al primo piano è collocata la raccolta di porcellane europee del XVIII secolo il cui nucleo più cospicuo è costituito da quelle delle fabbriche di Meissen, Napoli e Capodimonte; infine al piano seminterrato, è stata riallestita da pochi anni la sezione di oggetti d’arte orientale, tra cui notevole è la collezione di porcellane cinesi di epoca Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911).

lunedì 9 agosto 2010

Real Museo Mineralogico

Il Real Museo Mineralogico rappresenta la prima delle grandi istituzioni scientifiche della città di Napoli. Fu istituito nel 1801 per supportare, con la ricerca, lo sviluppo del Regno di Napoli e ciò lo distingue da altri Musei nati esclusivamente per conservare e tutelare esemplari del mondo dei minerali. Al Museo Mineralogico fu assegnata la prestigiosa Biblioteca del Collegio Massimo dei Gesuiti e in duecento anni non ha mai cambiato sede.
La sala monumentale del Real Museo Mineralogico ha mantenuto l’assetto originario, se si eccettuano gli intagli in legno dorato ai quattro angoli del salone che rappresentano strumenti per l’identificazione e lo studio dei minerali.
L' Ottocento è per il Real Museo un periodo di notevole impegno in campo scientifico, didattico e sociale grazie all’opera di Matteo Tondi, direttore del Museo dal 1815 al 1835, e di Arcangelo Scacchi, suo allievo e direttore del Museo dal 1844 al 1892.
Con Arcangelo Scacchi le ricerche mineralogiche a Napoli conobbero una stagione felice e ricca d’importanti risultati scientifici. Tra gli eventi scientifici di risonanza internazionale svoltisi nel Real Museo, ricordiamo il VII Congresso degli Scienziati italiani che vide la straordinaria partecipazione di 1611 scienziati provenienti da numerose nazioni. Esso fu inaugurato all'inizio dell'Ottocento da Ferdinando IV, re di Napoli, che con la moglie aveva indetto un concorso per scienziati di mineralogia. Ed è proprio dalle raccolte di reperti dei primi vincitori del concorso, che deriva il germe delle collezioni mineralogiche del Museo, esposto come Collezione Generale. Si tratta di circa seimila campioni reperiti dai ricercatori che i Borbone inviarono, alla fine del Settecento, nei più importanti bacini minerari europei e che sono ritenuti per il loro pregio e per la loro rarità particolarmente preziosi. Alla collezione iniziale furono aggiunte alcune raccolte negli anni successivi. Il criterio espositivo segue il principio classificatorio di Strunz, per cui i campioni sono suddivisi in nove categorie. Troviamo allora il primo gruppo di fosfuri, nitruri, carburi, elementi nativi e leghe, il secondo con antimoniuri, tellururi, bismuturi, solfuri, arseniuri e seleniuri, il terzo con alogenuri, il quarto con ossidi e idrossidi, il quinto con borati, carbonati e nitrati, il sesto con cromati, solfati, wolframati e molibdati, il settimo con vanadiati, arseniati e fosfati, l'ottavo con i silicati, e il nono con i composti organici. La successiva sezione è dedicata alle pietre dure ed espone i pezzi in tre bacheche che troviamo nel corridoio. Questi campioni sono proposti secondo un percorso che mette in evidenza i passaggi da pietra grezza a pietra lavorata, di valore ornamentale. Si passa dalla prima teca, che contiene campioni grezzi, alla seconda, che presenta le pietre semilavorate, tra le quali sono presenti due geodi di agata che, contenendo un liquido, se scossi fanno rumore. Nella terza bacheca, invece troviamo i lavori degli artigiani napoletani, come il coperchio da astuccio di marmo, sul quale sono incastonate, a raffigurare fiori, malachite, lapislazzuli, madreperla, turchese, agata corniola e cammei finissimi, tipici della tradizione artigiana di Napoli. In relazione a questo tipo di lavorazione, possiamo ammirare, attraverso i pezzi esposti, il processo di realizzazione dei cammei, oltre a monili preziosi e oggetti di uso quotidiano. Nel Museo è presente anche una collezione di goniometri usati per lo studio dei cristalli, che rappresenta l'evoluzione delle apparecchiature scientifiche mineralogiche da metà Ottocento a metà Novecento. Un'altra raccolta, che troviamo esposta nel Vestibolo è quella dei Grandi Cristalli, acquisiti tra gli anni '60 e gli anni '70, tra i quali spiccano per importanza i due enormi cristalli di quarzo ialino provenienti da un filone pegmatitico del Madagascar. Tra gli altri pezzi esposti in questa sezione, possiamo ammirare una grande varietà di cristalli, come quello di tormalina della varietà pappagallo, e quello di quarzo ialino con abito prismatico, che presenta sulle facce altri sei cristalli di quarzo e termina con due romboedri. Altre sezioni del Museo sono dedicate alla collezione dei minerali fluorescenti, alla collezione vesuviana, che comprende circa 200 campioni di specie differenti provenienti dal complesso vulcanico del Monte Somma-Vesuvio, quella dei cristalli artificiali, sviluppati esperimenti di cristallogenesi, quella del medagliere, che comprende medaglie otto e novecentesche realizzate con la lava vesuviana, quella dei meteoriti, tra i quali è presente un esemplare di ottaedrite a lamelle medie e una una tectite proveniente da Budweiss, quella dei tufi campani, che contiene campioni moltro rari, provenienti per la maggior parte dalla Tufara di Fiano, presso Nocera.
Nel Novecento terremoti ed eventi bellici causarono gravissimi danni al Real Museo, che subì nel tempo profonde ristrutturazioni.


http://www.musei.unina.it/

sabato 7 agosto 2010

Museo degli Ex Voto della Madonna dell'Arco

Affascinante struttura museale collegata, con l'annesso Santuario della Madonna dell'Arco, ad un primigenio evento miracoloso verificatosi nel 1450, in località "Archi". In questo luogo, così denominato per la presenza delle arcate di un antico acquedotto romano, si verificò il sanguinamento di un'effige sacra della Vergine, a causa di un colpo infertole volontariamente da un giovane di Nola. Quest'ultimo, avendo perso una partita di "palla a maglio", non aveva trovato di meglio che sfogare la propria ira sulla sacra rappresentazione. L'immagine, immediatamente venerata dal popolo, riuscì talmente ad accrescere negli anni la propria fama miracolosa, da provocare la costruzione di un apposito santuario dedicato alla c.d. "Madonna dell'Arco". Il Centro Studi del Santuario, istituito dai Padri Domenicani custodi del medesimo luogo di culto dal 1592, al fine di meglio esplicare la propria missione di custodia e salvaguardia del patrimonio devozionale, ha recentemente deciso di realizzare un Museo della religiosità popolare. Quest'ultimo, inaugurato nell'anno Giubilare 2000, consente la fruizione del grande patrimonio degli ex voto del Santuario che, per quantità, valore documentaristico, rilievo religioso, storico e sociale, si atteggia ad unicum senza termini di paragone in tutto il continente europeo. Delle sole tavolette pittoriche, rappresentanti eventi miracolosi imputabili alla Vergine, se ne contano circa ottomila, di cui quasi seicento riferibili al 1500 e più di settecento al 1600. Esse, realizzate con una tecnica ingenua e popolare, costituiscono una preziosissima fonte d'informazione, oltre che sulla realtà di una profonda fede popolare, su un'umanità che ha vissuto intensamente, nell'alternarsi di sofferenze e gioie, le vicende della propria storia. Oltre alle tavolette pittoriche, le collezioni esposte prevedono anche la sezione "oggettistica": armi, barche, siringhe in oro. Gli oggetti presentati, ordinati secondo la tipologia della grazia ricevuta, sono stati donati al santuario in relazione ad un modello di comportamento che, nella cultura popolare, atteggia il privarsi di beni "cari" a segno di fede profonda. Il Tesoro del Santuario raccoglie, infine, nella sezione "preziosi", una serie di doni dei fedeli anch'essi frutto della secolare devozione per la Madonna dell'Arco.

venerdì 6 agosto 2010

Museo Vulcanologico dell'Osservatorio Vesuviano

Fondato nel 1841 da Ferdinando II di Borbone, l'Osservatorio Vesuviano fu la prima struttura al mondo creata per studiare i fenomeni vulcanici. L'istituzione scientifica fu collocata in un elegante edificio neoclassico realizzato, su un piccolo colle al riparo delle colate laviche, sul versante Occidentale del Vesuvio. Lo stesso edificio oggi, non essendo più utilizzato per lo svolgimento dell'attività scientifica, è stato destinato a svolgere la funzione di sede del Museo dell'Osservatorio Vesuviano. Attualmente l’Osservatorio Vesuviano è la sezione napoletana dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. In questo museo l'Ente intende conservare ed esporre gli strumenti e gli oggetti lasciati in dono da un plurisecolare lavoro d'indagine. Oltre a svariate collezioni storico-scientifiche, librarie, dall'aprile 2000 il Museo ospita la mostra "Vesuvio: 2000 anni di osservazioni". L'esposizione ha lo scopo di condurre il visitatore attraverso un affascinante percorso nel mondo dei vulcani. Essa, inoltre, essendo ubicata all'interno dell'area vesuviana che è notoriamente soggetta ad un elevatissimo rischio vulcanico, ha anche l'obiettivo di educare e informare la popolazione locale sui pericoli cui è esposta. Tutta la mostra concede ampio spazio ai filmati, al materiale iconografico, alla visione diretta dei prodotti delle varie eruzioni, all'osservazione in tempo reale dei dati sismici registrati dalla rete di sorveglianza dell'Osservatorio. Di particolare rilievo la sala dedicata alla collezione libraria che annovera, tra l'altro, l’interessante volume “Campi Phlegraei”, di William Hamilton. Di notevole valore storico scientifico anche la sezione dedicata ai diversi strumenti di misura tra i quali il più significativo è il sismografo elettromagnetico di Luigi Palmieri, strumento tanto noto ed apprezzato ai suoi tempi, che un esemplare fu acquistato dal governo giapponese perché funzionasse per l'Ufficio Meteorologico Centrale di Tokio. Il museo è in una fase di ampliamento.

Orari e periodi d'apertura: il Museo è visitabile, su prenotazione, nei giorni feriali, da gruppi scolastici ed associazioni. Il sabato e nei giorni festivi è aperto a tutti dalle ore 10.00 alle ore 14.00.
Biglietti: l'ingresso è gratuito.
Servizi offerti : Visite guidate, durata circa 90 minuti.
Avvertenze: per le prenotazioni occorre rivolgersi alla Segreteria di Direzione dell’Osservatorio Vesuviano ai seguenti recapiti tel.: + 39.081.6108483 - telefax: + 39.081.6102304